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  l’eternità secondo severino

sabato 9 marzo 2024

Intervento di: EMANUELE SEVERINO Filosofo SCIENZA E TECNICA TRA VOLONTÀ DI POTENZA E ASCOLTO DEL ‘SOTTOSUOLO’ Gentilmente invitato da Mario Capanna a discutere il suo interessante progetto, esposto nel saggio Scientismo, scienza, democrazia, richiamo solo alcuni punti del discorso che da molto tempo vado sviluppando su questi temi. Che l’apparato scientifico-tecnologico sia attualmente un mezzo nelle mani del capitalismo, ossia della prassi che ha come scopo “ultimo” l’incremento indefinito del profitto (scopo “ultimo” nel senso di fondamentale, cioè subordinante a sé ogni altro scopo e dunque, in questo senso, “primario”) è uno dei fenomeni oggi più visibili; come lo è il carattere distruttivo della simbiosi tra tale apparato e il capitalismo. Mi pare che Capanna sia d’accordo con me nel rilevare l’inevitabilità del processo che, d’altra parte, conduce al rovesciamento dove il capitalismo è destinato a diventare un mezzo nelle mani dell’apparato scientifico-tecnologico, ossia della prassi che invece ha come scopo fondamentale l’incremento indefinito della potenza. Ed è d’accordo con me nel rilevare la contraddizione per la quale o il capitalismo non rinuncia a sé stesso, e quindi alla propria distruttività, e distruggendo la Terra distrugge sé stesso, oppure si convince del proprio carattere distruttivo e assume come scopo la salvaguardia della terra (mediante l’adozione di tecniche alternative) e, anche in questo caso, rinunciando al proprio scopo primario, distrugge sé stesso.

Ma Capanna ritiene di poter andar oltre questo discorso, che, a suo avviso, “si ferma a un certo punto” (cfr. par. 24 e nota 9). Scrive che “del tutto analoga” è la contraddizione dove l’apparato scientifico-tecnologico, “non potendo controllare i rischi che esso determina” o non cambia strada “e distrugge a sua volta la terra, oppure si convince del proprio carattere distruttivo e quindi assume come scopo la salvaguardia della Terra (per non distruggersi a sua volta), perciò perseguendo un fine ben diverso da quello di aumentare indefinitamente la propria potenza”(nota 9).

Sennonché questa analogia non sussiste, perché la distruttività dell’apparato scientifico-tecnologico riguarda l’apparato in quanto mezzo nelle mani del capitalismo, o in generale la gestione “ideologica” dell’apparato. Non riguarda l’apparato che, come Capanna riconosce, si è emancipato dalla sua subordinazione al capitalismo o ad altra “ideologia”. (E anche in passato i pericoli determinati dall’uso dell’energia nucleare non riguardavano la tecnica nucleare in quanto tale, ma qualcosa come lo scontro “ideologico” tra capitalismo e comunismo; e, oggi, riguardano qualcosa come, appunto, la gestione capitalistica - o islamico-fondamentalista, o cinese, o nazionalistica, o terroristica. ecc. - dell’apparato). L’apparato che ha come scopo l’incremento indefinito della potenza ha inevitabilmente come scopo il controllo dei rischi e dunque del rischio di distruggere sé stesso. Nessun’ altra forma di apparato, quella democratica compresa (e anzi quella democratica in modo particolare), può garantire un controllo del rischio, che sia maggiore del controllo garantito dall’apparato tecno-scientifico. L’”economia della solidarietà” non può “garantire”, essa “sola”, “il futuro umano” (come invece sostiene Capanna, ibid.), appunto perché non ha come scopo ultimo l’incremento indefinito della potenza e quindi del controllo del rischio. Se poi questa economia avesse come scopo ultimo e la solidarietà e una scienza che non fosse scientismo e ne evitasse la pericolosità (questa, la “nuova alleanza” auspicata da Capanna, par. 32), allora la capacità di questa “economia” di controllare il rischio sarebbe pur sempre inferiore a quella di un apparato che ha come scopo ultimo un incremento indefinito della potenza che non deve dividersi con la solidarietà il proprio rango di scopo ultimo e quindi possiede la maggiore efficacia e la maggiore capacità di controllo del rischio raggiungibili dall’agire. E si tenga presente che come il rovesciamento in cui il capitalismo diventa mezzo per l’incremento della potenza non elimina la produzione economica, così l’incremento indefinito della potenza, perseguito dall’apparato scientifico-tecnologico, non elimina la solidarietà, ma se ne serve - come può servirsi della religione, dell’umanesimo, dell’arte, ecc.. Si serve dell’uomo. Certo l’uomo, in quanto mezzo, è qualcosa di diverso dall’uomo in quanto scopo. Ma l’uomo è un mezzo insostituibile, e la volontà di potenza non può sostituirlo. E, d’altra parte, nelle civiltà e nelle culture che oggi dominano la Terra, quale sapere riesce ad essere la verità incontrovertibile che impone di trattare l’uomo come fine e non come mezzo? Questo si deve dire, sino a che si rimane all’interno dell’orizzonte esplorato da Capanna (ma all’interno del quale sostanzialmente si mantiene l’intera “nostra” cultura). Al di là di questo orizzonte (e la questione decisiva sta appunto nel senso di questo “al di là), tutto è rimesso in discussione. A cominciare da quel concetto di “potenza” che, sia pure in modi diversi, è presente tanto nello scientismo quanto nella scienza, e nella democrazia, nel capitalismo, nel comunismo, nelle religioni e in ogni forma che l’esser uomo ha assunto e ha evocato sin dall’inizio della sua avventura sulla Terra.

Poiché Capanna ha l’amabilità di chiamarmi suo “maestro”, prolungo ancora un poco il nostro dialogo, portando più in primo piano il tema della filosofia. In modo articolato e competente egli sviluppa un discorso dove viene sostenuta una “investigazione interdisciplinare” che sia insieme una “visione olistica dei fenomeni”: “interdisciplinarietà olistica” (parr. 34-35). Ma le discipline scientifiche si presentano oggi (e per motivi specifici che altrove ho determinatamente indicato) come specializzazioni, delimitazioni di campi metodicamente separati gli uni dagli altri. L’interdisciplinarietà, oggi, è il tentativo di unire ciò che è stato concepito come originariamente separato - un tentativo quindi che non può non condurre a una unificazione accidentale, casuale, provvisoria di quei campi.

L’ “olismo” del nostro tempo non va pertanto confuso con la comprensione del Tutto con la quale il pensiero filosofico porta alla luce ciò che vi è di identico nelle differenze e che dunque intende tenerle originariamente unite. D’altra parte, la comprensione unitaria delle diverse specializzazioni scientifiche non può essere data da una di esse. La comprensione unitaria (“olistica”) non può essere interdisciplinare nel senso che oggi compete a questo termine. Si apre con ciò il problema - gigantesco - delle condizioni per le quali il pensiero filosofico non si lascia risucchiare dalla separatezza delle parti. Infine, la filosofia non è teologia. L’entusiasmo con cui Capanna guarda alla democrazia è ammirevole, ma le nostre preferenze non sono leggi inviolabili. Oggi i liberali più consapevoli riconoscono che la democrazia è una scelta, come la fede che sta alla base del discorso teologico. Molto prima di loro Luigi Einaudi diceva che la filosofia è un “mito” che più di altri miti ci serve per sopravvivere meno peggio. Invece Capanna (insieme a tanti altri) solleva immediatamente, e dunque arbitrariamente, la democrazia al rango di valore inviolabile. Certo, è libero di esortare alla difesa della democrazia. Ma l’esortazione a cambiare il mondo deve poi fare i conti con ciò che il mondo e la volontà di cambiamento sono in verità - e al tema della verità ci si deve accostare con la circospezione più grande. Nello sviluppo della civiltà dell’Occidente la democrazia procedurale ha una coerenza essenzialmente superiore a quella di ogni forma di totalitarismo, ma, per i motivi a cui sopra ho accennato, essenzialmente inferiore a quella dell’apparato scientifico-tecnologico. D’altronde Capanna sa anche molto bene che da tempo vado mostrando come, all’interno dello sviluppo dell’Occidente nemmeno la tecnica abbia l’ultima parola. La tecnica è destinata infatti a un tempo, che sta incominciando, in cui spetta ad essa l’ultima parola: nella misura in cui essa non è semplicemente la tecnica quale oggi viene intesa, ma è la tecnica che riesce a porsi in ascolto di ciò che chiamo il “sottosuolo” essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. In tale sottosuolo appare l’inevitabilità del tramonto della tradizione dell’Occidente e dei suoi valori, cioè l’inevitabilità del tramonto di ogni Immutabile, di ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo. E’ questo sottosuolo che autorizza l’apparato scientificotecnologico ad essere volontà di incremento indefinito della potenza, e che l’apparato deve riuscire ad ascoltare per essere tale incremento. (Ma, anche, è questa unione del “sottosuolo” e della tecnica a raggiungere il culmine della follia estrema da cui la storia dell’uomo è g

«Mi dico neoparmenideo, per semplificare.

In verità, sono l’opposto di Parmenide.

In Parmenide, l’Essere è la pura luce, senza considerare i colori. Lui afferma l’eternità della pura luce, mentre il molteplice, il mondo, sono illusione. Io dico che sono eterni, proprio il mondo e la molteplicità.

Quello che unisce me e Parmenide, è l’eternità. Tutto è eterno. Non esiste un passato che sia nulla e attenda di entrare nell’Essere.

Questo pieno totale si affaccia progressivamente nella storia. La storia e il tempo sono il progressivo affacciarsi degli Eterni»

(da un’intervista di Giancarlo Perna)

citazione tratta da:

e’ morto emanuele severino. il filosofo e’ scomparso il 17 gennaio ma per sua volonta’ la notizia… – Cronache«Mi dico neoparmenideo, per semplificare.

In verità, sono l’opposto di Parmenide.

In Parmenide, l’Essere è la pura luce, senza considerare i colori. Lui afferma l’eternità della pura luce, mentre il molteplice, il mondo, sono illusione. Io dico che sono eterni, proprio il mondo e la molteplicità.

Quello che unisce me e Parmenide, è l’eternità. Tutto è eterno. Non esiste un passato che sia nulla e attenda di entrare nell’Essere.

Questo pieno totale si affaccia progressivamente nella storia. La storia e il tempo sono il progressivo affacciarsi degli Eterni»

(da un’intervista di Giancarlo Perna)

citazione tratta da:

e’ morto emanuele severino. il filosofo e’ scomparso il 17 gennaio ma per sua volonta’ la notizia… – Cronache


L’INFINITA’ DI CERCHI FINITI DEL COMPARIRE

Tale oltrepassamento è il sopraggiungere dell’apparire degli essenti in un cerchio dell’apparire diverso da quello originario. E poiché neppure l’attualità sopraggiunte in questo cerchio diverso da quello originario può essere un inoltrepassabile, vi sarà un ulteriore cerchio, e poi un altro ancora, e così via…, e ciò implica che la terra si inoltri in quella che lo stesso Severino chiama la “costellazione infinita dei cerchi finiti dell’apparire”.

c) Il tramonto dell’isolamento della terra

La terra – ciò che via via sopraggiunge – è un incominciante, sicché ad essere un incominciate è anche l’isolamento della terra dalla verità dell’essere; ora, stante il teorema della Gloria, anche l’isolamento della terra – e dunque di tutto ciò che è connesso alla “volontà” intesa come principio che vuole il divenir altro delle cose – è destinato ad essere oltrepassato; ed è necessario che la totalità concreta della terra isolata appaia come qualcosa di interamente compiuto:

Se infatti questa concretezza del contenuto dell’isolamento non fosse oltrepassata e quindi non continuasse ad apparire nel suo esser oltrepassata, essa sarebbe daccapo un luogo in cui la terra si imbatte ma che non può oltrepassare.

Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 1980, p. 125

Affinché l’isolamento della terra sia concretamente oltrepassato è necessario: 1) che, ad un certo punto del dispiegamento della terra, in ciascuno degli infiniti cerchi finiti dell’apparire, le terre isolate degli altri cerchi appaiano, in un unico evento, nella totalità delle loro determinazioni, come terre degli altri cerchi; 2) che tali terre così appaiano nell’atto stesso in cui l’isolamento è oltrepassato, giacché per apparire come terre degli altri cerchi è necessario che lo sfondo persintattico di ciascuna di esse (e cioè la totalità delle determinazioni persintattiche implicate dalla struttura originaria, che è identica in ogni cerchio) appaia come non isolato da esse, ed è impossibile che così appia in un cerchio dove la terra e ancora isolata dal destino. Severino chiama “venerdì santo della solitudine” l’apparire, in ciascuno dei cerchi finiti dell’apparire, della totalità della terra isolata che appare in ciascuno di essi; e chiama “pasqua” della liberazione dalla solitudine della terra, l’apparire di quel tratto della terra – la “terra che salva” – la cui assenza fa sì che irrompa l’isolamento. Segue, da quanto precede, che il “venerdì santo” può apparire solo nella “pasqua”, ossia nell’evento che lo oltrepassa:

Nello sguardo del destino della verità appare […] la necessità che il «venerdì santo» della solitudine delle terre dei cerchi non preceda ma appaia insieme al proprio tramonto; e cioè che il tremendum non sia lasciato a se stesso e al suo orrore, ma appaia nell’atto stesso in cui è oltrepassato dalla «pasqua» della libertà del destino […], cioè nell’atto stesso in cui nella costellazione dei cerchi appare il Luogo della terra che è il fondamento della libertà del destino […]. È dunque necessario che, in quell’unico evento, tutte le infinite terre isolate che si danno convegno in un cerchio appaiano nel loro essere oltrepassate non solo in questo cerchio, ma anche in ognuno degli altri cerchi, ossia in ognuno dei cerchi a cui esse originariamente appartengono […]. Un unico evento raccoglie dunque – quando, lungo il dispiegamento della Gloria, giunge il tempo destinato – il sopraggiungere, in ogni cerchio, della totalità delle terre isolate e il tramonto, in quel cerchio, dell’isolamento della terra, e un unico evento raccoglie in sé, in quel tempo, questo evento e il tramonto, in ognuno degli infiniti altri cerchi, delle terre isolate che in essi sono sopraggiunte.

Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 1980, pp. 543-549

Il progressivo disvelamento dell’essere conduce dunque alla “salvezza” della verità, ossia alla liberazione della verità dal contrasto con l’isolamento della terra. Per fare ulteriore luce su ciò che è destinato ad apparire col tramonto dell’isolamento, Severino sfrutta il tema della “traccia”: poiché ogni essente sta in relazione necessaria con ogni altro essente, in ogni essente è presente, come negato, ogni altro essente; e la “traccia” è, appunto, tale presenza. Ebbene, posto che la Gloria è l’incedere in indefinitum degli eterni al di là di ogni configurazione sopraggiungente, e che la Gioia è l’infinita concretezza del Tutto, la necessità che l’isolamento sia concretamente oltrepassato implica che siano decifrate le tracce che la terra isolata lascia nel Tutto e quelle che il Tutto lascia nella terra isolata. Segue che siamo destinati alla Gloria della Gioia, ossia all’incedere del Tutto, non nel senso che la Totalità infinita degli essenti, assolutamente considerato, possa apparire – ciò è impossibile perché implicherebbe l’identificazione del finito e dell’infinito –, ma nel senso che è destinata a sopraggiungere la Gioia del Tutto in quanto sta in relazione alla terra isolata e alle successive infinite configurazioni sopraggiungenti:

È destinata a sopraggiungere una luce infinita, a cui tengon dietro altre infinite luci, ognuna delle quali conserva le luci da cui è preceduta. Se c’è un luogo, nel linguaggio che testimonia il destino, a cui conviene l’espressione Gloria della Gioia, esso e questo. La Gloria della terra […] è l’oltrepassamento senza fine della terra isolata e di ogni configurazione della stessa terra che salva […]. La Gloria della Gioia e il dispiegamento infinito […] dei sempre più alti altipiani della terra che salva, in ognuno dei quali sopraggiunge l’apparire delle forme sempre più concrete e più ampie della Gioia del Tutto.

Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, pp. 560-561

La Gloria della terra, così come l’affermazione del sopraggiungere della Gloria della Gioia, sono necessarie implicazioni dell’incontrovertibile esser sé dell’essente, ossia di quel fondamento di cui La struttura originaria ha esposto i tratti essenziali.

d) La morte e l’imminenza della Gioia

In questo contesto la morte non può essere l’impossibile annullamento dell’essente, bensì il compimento della volontà che è insieme il compimento del contrasto tra la verità dell’essere e la terra isolata:

Proprio per questo, la morte è […] l’estrema imminenza della terra che salva. Nell’imminenza […] il tempo non scorre perché non sopraggiunge alcunché (alcun eterno). Il primo sopraggiungente è allora il bagliore estremo della terra che salva.

Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011, p. 412

L’istante a cui la morte conduce è quello in cui appare l’ultima fase della volontà che con la morte, nel cerchio del destino in cui essa muore, ha avuto compimento. A tale istante corrisponde, negli altri cerchi del destino, il dispiegarsi della terra isolata fino al tramonto dell’isolamento della terra e cioè fino a che, ad un certo punto di tale dispiegamento, in ciascuno degli infiniti cerchi finiti del destino sopraggiunge lo splendore della “pasqua”, le sempre più ampie e concrete forme della Gioia del Tutto, rispetto a cui il tremendum del “venerdì santo” è soltanto un punto.

Severino e i suoi critici

I principali interlocutori di Severino si sono con lui confrontati criticamente sia sul terreno fenomenologico che su quello logico-ontologico della semantizzazione dell’essere. Memorabile è stato il titanico confronto con Gustavo Bontadini. Tra gli altri critici ricordiamo, sul versante tomista: Cornelio Fabro e Gianfranco Basti; sul quello aristotelico e aristotelico-tomista: Enrico Berti e Carmelo Vigna; su quello tomista-neoclassico, intento a far convergere la prospettiva parmenidea e quella di matrice aristotelico-tomista: Leonardo Messinese e Giuseppe Barzaghi; su quello neoparmenideo: Gennaro Sasso, Mauro Visentin e Luigi Vero Tarca. Con Severino hanno dialogato, tra gli altri, Ines Testoni, Massimo Donà, Umberto Galimberti, Salvatore Natoli, Vincenzo Vitiello, Biagio de Giovanni, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, i teologi Piero Coda, Pierangelo Sequeri, Angelo Scola, Raimon Panikkar, il fisico Roger Penrose, il giurista Natalino Irti.

Emanuele Severino – Sito ufficiale

Emanuele Severino Emanuele Severino (Brescia, 26 febbraio 1929) è un filosofo, accademico e compositore italiano. © 2024 Emanuele Severino – Sito ufficiale | Filosofo Emanuele Severino

Le differenze che si registrano fra Il prof Severino e Parmenide ci sono ed esse restano determinanti per l’intero pensiero del Filosofo del nostro tempo. Per dirla tutta per intero i due pensieri alla fine si oppongono su aspetti essenziali . Infatti secondo Parmenide l’essere è visto come la pura luce , ma non ne considera i colori. Parmenide afferma l’eternità di questa pura luce che è una come uno è l’essere , mentre il molteplice, il mondo, sono una illusione. Lui invece afferma che ad essere eterni sono proprio il mondo e la molteplicità. Ciò che invece unisce i due filosofi è l’eternità. Tutto è eterno. Non esiste un passato del nulla che attenda di entrare nell’essere , nella luce. Tutta questa totalità sta progressivamente nella storia. Come dire : la storia e il tempo msono il progressivo affacciarsi degli eterni.